Tu sei qui: Cronaca‘I giudici dovranno chiedermi scusa'
Inserito da Il Mattino (admin), giovedì 21 novembre 2002 00:00:00
Da Cosenza rompe il silenzio Elisabetta Della Corte, la donna originaria di Cava de' Tirreni, ora assegnista di ricerca all'Università di Cosenza, che è indagata per associazione sovversiva. Elisabetta, che negli anni '90 testimoniò al processo sul rapimento del fidanzato Franco Amato, facendo condannare i colpevoli, parla del suo lavoro, delle accuse che le hanno contestato e del clima di questi giorni a Cosenza. Racconta di aver partecipato alle più importanti manifestazioni del movimento, per interesse soprattutto professionale, dal momento che studia ed insegna, da sociologa, i movimenti collettivi e le marginalità, soprattutto quelle relative al mondo del lavoro. L'ultima volta che si è trovata faccia a faccia con i giudici aveva 23 anni e gli occhi di due boss puntati addosso dalla gabbia di un dibattimento. Non esitò: «Sono loro». Dissero i giudici: «Grazie, può andare». I boss furono condannati: avevano rapito il fidanzato, Franco Amato, figlio di Guerino, noto imprenditore cavese del cemento. La sera del sequestro c'era anche lei. Fu aggredita, immobilizzata e lasciata a diventare grande con quello choc. Lei li vide in faccia e poi li accusò. Elisabetta, non sei una che ha paura...«Eccome no. Ho paura della stupidità». E della verità? «Mai. Ma mica perché sono un'eroina. Sono una donna normale, alla quale hanno insegnato a dire sempre quello che pensa». È per questo che sei nei guai? «Nelle famigerate 356 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare, mi si accusa di aver partecipato ad una pubblica assemblea. Cosa che ogni docente fa tutti i giorni. Qui ad Arcavacata la vita universitaria è vissuta dal di dentro, è vivace, dinamica. Noi andiamo, parliamo, ci confrontiamo sempre». E cosa hai detto in quest'assemblea? «Ho parlato del mio lavoro, delle mie ricerche sull'immigrazione, dei libri che ho scritto su tutti i tipi di marginalità e sulle trasformazioni del lavoro. Sono una sociologa e per me è un dovere d'ufficio. Questa è la cosa scandalosa: l'avviso di garanzia, che tra l'altro non mi è stato neppure ancora notificato, riguarda il mio lavoro». Che reato hai commesso secondo i giudici di Cosenza? «Il reato di opinione. Praticamente, sono indagata per aver detto quello che penso, come tutti gli altri». Sei preoccupata? «Le accuse mi fanno ridere. Ghignare, è più giusto. La verità è che sono fortemente indignata, questo sì. Sono indignata con i giudici che applicano così alla leggera l'armamentario obsoleto del Codice Rocco. Lo zio di mio padre fu spedito al confino a Capri perché antifascista. Se non siamo ritornati a quell'epoca, poco ci manca». È un abuso, secondo te, quello dei giudici? «Non voglio e non posso entrare nel merito. Ma mi chiedo: dove sono finiti i giudici di magistratura democratica? Stanno a guardare?» Ti ritieni una militante? «Se militante significa esprimere liberamente le proprie opinioni, allora sì, sono militante». Hai partecipato al Global Forum di Napoli ed al G8 di Genova? «Sì, c'ero ad entrambe le manifestazioni. Io studio i movimenti collettivi e conoscerli dal di dentro è fondamentale per il mio lavoro. Forse ci sarei andata anche se non fossi stata una sociologa, d'accordo, ma basta questo a criminalizzarci?». Sei stata coinvolta nei disordini? «Assolutamente no. Se stai nel blocco pacifico, non succede nulla, non hai nessun problema». Conosci le persone arrestate venerdì scorso per associazione sovversiva? «Sono miei colleghi, come Anna Curcio ed Antonino Campennì. Sono ricercatori come me, dividiamo le giornate qui al dipartimento di Sociologia ed andiamo via alle 10 di sera, al cinema o a mangiare». Come è stata accolta all'Università la notizia degli arresti e degli avvisi di garanzia? Avete avuto problemi di tipo disciplinare? «Abbiamo avuto l'appoggio di tutti. Il decano dell'Università ha diffuso proprio oggi una mozione in cui si condanna con forza l'iniziativa giudiziaria che collega l'attività accademica dei docenti ad una presunta vocazione sovversiva e paraterroristica dell'Università, ed invita tutti alla mobilitazione». Come pensi che andranno le cose? «Non lo so, ma una cosa è certa: i giudici dovranno chiedermi scusa».
Orgogliosa di essere cavese
36 anni a febbraio, figlia di una stimata e benestante famiglia di San Cesareo, Elisabetta Della Corte è andata via dalla sua città 10 anni fa, poco tempo dopo il processo ai rapitori di Franco Amato. Pur affermando che «la Calabria valorizza i talenti», resta orgogliosa delle sue origini cavesi. Qualche anno fa, con il fratello Antonello, aprì un ristorante a San Cesareo, che trasformò in breve tempo in un cenacolo di intellettuali.
Giramondo col pallino degli "ultimi"
Due lauree con 110 e lode, in Pedagogia e Filosofia, Elisabetta Della Corte nel 2001 ha conseguito il dottorato di Ricerca in Scienza, Tecnologia e Società, presso il Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica dell'Università delle Calabrie, discutendo una tesi dal titolo «Sul Fronte dei Porti: Lavoro e Innovazioni tecnologiche a Southampton, Felixstowe e Gioia Tauro». Ora è assegnista di ricerca al Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica dell'Università delle Calabrie, ad Arcavacata. Ha insegnato anche all'Università di Aalborg, in Danimarca, dove ha condotto uno studio sui flussi migratori e sui rifugiati, ed è stata ricercatrice per il progetto del Cnr su «Distribuzione del reddito e disuguaglianze sociali». È autrice di uno studio sui Rom a Cosenza. Ha studiato anche i fenomeni della marginalità e della devianza giovanile a Salerno: suo è uno studio sulle condizioni di vita degli adolescenti a Pastena.
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