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Tu sei qui: SezioniStoria e StorieLe idi di marzo: 23 pugnalate per entrare nella leggenda. Ma il vero traditore fu Cesare
Scritto da (Redazione), giovedì 15 marzo 2018 08:29:50
Ultimo aggiornamento domenica 15 marzo 2020 09:46:49
Colpito alla schiena, Giulio Cesare si gira verso il congiurato Publio Servilio Casca Longo e lo spinge lontano con forza. È il segnale, gli altri congiurati si lanciano su di lui.
Cesare riesce a tenere loro testa fino a quando non vede anche Marco Giunio Bruto venirgli incontro. Allora si copre il capo con la toga e, esclamando «Anche tu, Bruto figlio mio!», lasciandosi trafiggere dalle ormai celebri 23 pugnalate. O almeno è quanto ci hanno tramandato i cronisti dell'epoca.
Ma tanto è bastato affinché il personaggio da storico diventasse anche leggendario. Conquistando un posto di rilievo nella letteratura, ispirando pittori, musicisti, scrittori e drammaturghi, da Dante Alighieri a William Shakespeare.
Cesare cadde sotto i pugnali dei cospiratori nelle idi di marzo del 44 avanti Cristo, vale a dire il 15 marzo.
Tra loro anche il figlio adottivo Bruto, che poi Dante metterà all'inferno come simbolo di tradimento, insieme a Cassio, altro congiurato, e Giuda.
In realtà il vero «traditore» fu proprio la vittima in quanto, dopo aver conquistato nuove province e sconfitto Pompeo, si apprestò a sopprimere la vecchia Repubblica.
Negli ultimi anni di vita riuscì infatti a farsi nominare «dictator» nel 49, carica poi rinnovata nel 47, divenuta decennale nel 46 e infine trasformata in perpetua dal 44. Tanto da farlo ritenere da molti storici, contemporanei e non, il primo imperatore di Roma. Per il senso che poteva avere all'epoca, i congiurati sono, dunque, dei sinceri «democratici» insorti contro un tiranno che vuole sopprimere le antiche libertà.
Bruto a Cassio vennero poi sconfitti e uccisi, a Filippi, e come ben si sa, la storia viene sempre scritta dai vincitori: l'eredità di Cesare venne raccolta da Ottaviano, suo nipote nonché altro figlio adottivo, che pensò di legittimare il proprio operato partendo proprio dalla glorificazione del suo prozio.
Cesare generale, oratore e scrittore, diventa così il simbolo dei frutti velenosi dell'odio e dell'invidia e come tale tramandato ai posteri. Anche se il primo a cantarne le gesta sarà proprio Giulio Cesare che nei «Commentarii de bello Gallico» e «de bello civili» parla di sè in terza persona.
Nel Medioevo la sua fama non si affievolisce e diventa protagonista della «Historia Regum Britanniae» di Goffredo di Monmouth, del romanzi «Les Faits des Romains», della «Chanson de geste». Nella Divina Commedia, Dante Alighieri lo mette nel Limbo, insieme con Enea, Omero, Ovidio, Orazio e Lucano. Mentre oltre ai suoi assassini, Bruto e Cassio, anche la sua amante, Cleopatra, finisce all'Inferno.
L'agguato di quel lontanissimo 15 marzo ha forse spento un tiranno, creati degli altri (historia magistra vitae), ma ha anche acceso una leggenda rendendo immortale quel «Tu quoque, Brute, fili mi!» di oltre duemila anni fa.
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