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Tu sei qui: SezioniL'EditorialeUmanità e amore: la grande forza delle donne
Scritto da (Redazione), domenica 8 marzo 2020 09:43:16
Ultimo aggiornamento domenica 8 marzo 2020 09:43:16
di Antonio Schiavo
Saana piange. E' stanca, ha percorso quasi dodici chilometri tra il confine della Turchia e la Grecia, si trascina, fugge dal suo villaggio in Siria.
Ha visto cose brutte, Saana: granate scoppiate ad un passo dalla sua piccola casa, un amico mutilato da una mina, le strade ridotte a sentieri bucati e infranti.
Saana piange: ha fame, stringe con quanta forza le è rimasta la mano di Shamira, sua madre. Lei le asciuga le lacrime che rigano un visino smunto, che tracciano una linea evidente nelle piccole guance sporche di fango. Le dà l'ultimo pezzo di pane duro rimastole.
La linea di demarcazione con un altro mondo è ancora lontana... si sta facendo buio, ci sarà da affrontare un nuova notte sperando che faccia meno freddo di ieri. Uno scialle ormai consunto, portato via in fretta prima che le truppe di un altro Generale entrassero di forza nel villaggio. Shamira lo appoggia sulle spalle della bambina.
Dall'altro capo della terra Enoch piange. Non per fame; c'è ancora, chissà per quanto, una ciotola di riso per lui. Piange di dolore: le ciglia dei suoi grandi occhi neri sono diventate spilli, aculei che, ripiegati verso l'interno hanno cominciato a bucarne il bulbo che ora è punteggiato di macchioline rosse, di sangue.
Ha il tracoma, una malattia che basterebbero due gocce di collirio al giorno per curare o per prevenire. Ma lì, in Sudan , questo collirio non è arrivato, forse non arriverà mai.
Guede, la mamma è lì, impotente. Gli bagna gli occhietti con l'acqua del pozzo. Pensa, spera di dargli un po' di sollievo. Con le sue mani rugose, bruciate dal sole cocente africano e corrose dalla fatica nel suo minuscolo campo arido, lo accarezza o, forse, scaccia le mosche moleste che si posano agli angoli sottili di quegli occhietti cisposi. Prega il suo Dio che lo salvi o che, almeno, ponga fine a quella sofferenza atroce.
Guede e Shamira, due mamme, due donne.
Che lottano, con coraggio, determinazione, con una forza incosciente supportata solo dall'amore smisurato per i propri figli in quelle parti di mondo da sempre abbandonate a loro stesse, nell'indifferenza più totale dei media e della sedicenti Organizzazioni Internazionali che dovrebbero tutelare diritti e dignità di tutti, ma omettono spesso di farlo, soprattutto quando non ci sono in ballo interessi economici e finanziari o pozzi di petrolio.
Due donne, tra le migliaia che sopravvivono fra gli stenti di un campo profughi, che si accalcano ai confini di paesi ritenuti civili; donne che vedono i propri figli soffrire e morire di malattie altrimenti curabili, di fame, di stenti.
Quel mondo civile che, oggi, avrebbe festeggiato l'8 marzo con la solita sceneggiata delle mimose, delle cene tra amiche, dei balli di gruppo fino a tardi.
Quest'anno l'allarme coronavirus inibisce tutto ciò. Forse però potrebbe costringere tutti noi per una volta, una soltanto, mentre ci dicono di rinchiuderci nelle nostre case accoglienti e calde, a riflettere sulla forza di queste donne, sui loro sacrifici in nome dei valori di umanità e amore che non possono essere banalizzati in celebrazioni effimere e rituali.
Almeno una volta, una soltanto non voltiamoci, indifferenti, dall'altra parte, come abbiamo fatto sempre pensando, ipocritamente, che il rispetto e la considerazione per le donne passasse solo dall'acquisto (magari all'ultimo minuto) di un mazzetto di fiori gialli.
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