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Storia e Storie

La Pergamena in bianco di Cava de' Tirreni

Inserito da Livio Trapanese (Redazione), martedì 8 marzo 2016 10:01:48

di Livio Trapanese

Come detto in altro nostro precedente nostro scritto, nel Salone d'Onore del Palazzo di Città di Cava de' Tirreni, si possono ammirare tre meravigliose tele, realizzate dal celebre Maestro Clemente Tafuri (Salerno, 18 agosto 1903 - Genova, 11 dicembre 1971), fra il tramonto del 1940 e l'alba del decennio successivo.

In quella qui rappresentata, il Maestro, ci consente di ricordare la ricezione della Pergamena in bianco, concessa alla Città di Cava (il toponimo di Città di Cava de' Tirreni origina dal 23 ottobre 1862) il 4 settembre 1460 dal giovane Re Ferrante I d'Aragona, consegnata nel Maschio Angioino di Napoli al Sindaco del tempo, Messere Onofrio Scannapieco, da Dupino, affinché gli si scrivesse e quindi concesso quanto desiderato.

L'Università di Cava (l'attuale civica amministrazione) non ritenne di richiedere nulla e la Pergamena, rimasta "immacolata", è ancor'oggi conservata nelle casseforti del Palazzo di Città metelliano, mentre la lettera d'accompagno è custodita nell'archivio della civica Biblioteca "Canonico Aniello Avallone", di viale Guglielmo Marconi, 157. Essa misura cm. 65 di base e cm. 55 d'altezza.

Nel marzo 1984, per interessamento della Civica Amministrazione, fu restaurata dalla Cooperativa di Restauro Beni Culturali della Regione Campania. Il restauro, in basso a destra, portò alla luce la firma di Re Ferrante (Rex Ferdinandus) ed il sigillo reale; alla sinistra, invece, la frase: Pascasius Garlon et Dominus Rex mandavit mihi Thomae de Girifalco, visum per Magnum Camerarium et Pascalem Garlon che, tradotta, indica: Pascasio Garlo o Garlone e il signore Re affidarono a me Tommaso di Girifalco per mezzo di Camerario Magno e Pasquale Garlone.

Alla domanda: perché la Città di Cava fu destinataria della Pergamena in bianco, rispondiamo: ""dal 17 giugno 1460 l'esercito angioino (con l'appoggio dei Baroni della Terra di Lavoro, del Principe di Nocera e Salerno e non solo) ed aragonese (sostenuto dalla sola Città di Cava) si erano attestati nella valle di Sarno e già si erano dati battaglia nelle giornate ricordate "della Lòngola e della Foce". Entrambi si preparavano alla contesa finale, la quale non appena ebbe inizio vide il giovane Re Ferrante sospinto verso la località Foce, con davanti le truppe del cugino Giovanni d'Angiò, pretendente al Trono di Napoli, ed alle spalle la lunga catena montuosa che sovrasta la Foce.

La leggenda racconta che: "nel pomeriggio del 6 luglio 1460, le campane delle cinquanta chiese della Città di Cava (che a quel tempo comprendeva anche le attuali Vietri sul Mare e Cetara), per disposizione dell'Università, echeggiarono a lungo per chiamare il popolo a raccolta, che si radunò in Piazza dei Comizi (l'ampio slargo sito dinanzi all'attuale chiesa del Purgatorio, a quel tempo non ancora costruita)".

Il Sindaco, Messere Onofrio Scannapieco ed i Deputati del popolo parteciparono ai convenuti quanto stava accadendo a Sarno. La vita ed il Trono di Ferdinando erano in serio pericolo e certamente avrebbe avuto mala sorte se non vi fosse stato l'intervento armato di militi. Fra gli uomini validi alle armi, l'Università né scelse cinquecento, lasciando gli altri alla difesa della Città. Dello spontaneo aiuto dei cinquecento militi cavesi a Sarno non v'è certezza documentale, ma lo storico Roberto Damiani, nelle note biografiche dei Capitani di Guerra, operanti in Italia dal 1300 al 1530, indica che alla Battaglia di Sarno del luglio 1460, con Ferrante d'Aragona, fra gli altri annovera: Giovannello Grimaldi, Giosuè Longo, Marino Longo, Matteo Stendardo e Bernardo Quaranta, tutti figli di note casate cavesi.

La storia, invece, ricorda che la Città di Cava fu l'unica a rimanere fedele alla causa aragonese, incurante del futuro rischio che avrebbe corso qualora l'esito definitivo della battaglia fosse stato favorevole per Giovanni, Duca d'Angiò, che tutti i signori del tempo davano per vincente; resta il fatto che dal 19 al 28 agosto 1460 la Città di Cava subì spietati "guasti" per mano angioina al quale non mancò l'appoggio del Principe di Salerno, ma nonostante ciò, la Città di Cava confermò la sua fedeltà alla Casa aragonese.

Tornando alla ricezione della Pergamena in bianco, ricordiamo che poiché l'Università di Cava non avanzò mai alcuna richiesta, per le già confermate ragioni di deferenza alla Casa Aragonese, quest'ultima il 22 settembre 1460 convocò, presso la reale corte di Napoli, i rappresentanti del popolo cavoto, affinché chiarissero le ragioni per le quali non avessero avanzato alcuna pretesa.

L'Università inviò: Pietro Cola Longo, Tommaso Gagliardi, Leonetto de Curtis, Petrosino de Jordano, Bernardo Quaranta e Petrillo de Monica, i quali, forti dell'orgoglio cavajuolo, confermarono al giovane Re che non avevano d'avanzare alcuna richiesta. Re Ferrante, a tal punto, consegnò loro un'altra corposa epistola (sei pagine), nella quale indicò i privilegi concessi allo valoroso et fidelissimo popolo cavajuolo, tra cui quello di: non pagare gabelle di sorta, sia nel vendere e sia nell'acquistare in tutto il Regno (dalla Rocca di San Benedetto del Tronto, sul versante adriatico, a Terracina, sul tirreno, a Lampedusa) e di fregiare gli scudi, gli stemmi ed i vessilli della Città di Cava delle armi o pali aragonesi: ...dipingere seu sculpire, at parte dextera, duas barras auream et rubeam, domus nostrae Regie Aragonie nec non et supra scutum coronam nostram Regiam.... La traduzione indica: ""dipingere o scolpire, nella parte destra, due barre una d'oro ed una rossa, della dimora del nostro Re d'Aragona e sopra lo scudo la nostra corona Regia"".

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